Payal Kapadiya, All we imagine as light, 2024 

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Storie di donne: tre colleghe, infermiere. Entriamo di soppiatto nelle loro case, all'inizio senza capire molto di cosa stiano parlando, perché il loro discorso era già iniziato, noi vi si ci siamo infilati dentro di soppiatto. Pare ci sia di mezzo qualcosa di vergognoso, o di ritenuto tale.

Ci sono film che hanno incipit didascalici, come Il buono, il brutto e il cattivo, che impiega minuti a spiegarti chi sono i personaggi e cosa fanno, e film come questo, in cui noi spettatori dobbiamo infiltrarci e comprendere da soli, quasi fossimo delle spie. Tutto appare caotico. Del resto siamo A Mumbai, la città delle contraddizioni, che spesso come dei gironi dell'inferno dantesco, con i suoi estremi di povertà, la prostituzione, l'esplosiva frammistione culturale. Come tutti gli inferni possiede un suo fascino perverso, attrattivo, fatto di colori e mercati brulicanti.

Il film è un classico esempio di nuovo neo-realismo del terzo millennio: scene di vita di gente comune, a casa, sul lavoro. La novità è che vengono proposti interludi che spezzano la narrazione. Immagini notturne riprese dai mezzi di trasporto, mille luci abbaglianti immerse nel buio. Insolita la scelta di produrre un'inquadratura per tre quarti nero pece, quasi a sprecare l'attenzione dello spettatore, oppure a concentrarla su un punto ben preciso. Intanto che guardiamo le immagini scorrere sentiamo le voci degli abitanti che raccontano la loro città, come in un frammento documentario. Una storia d'amore nei confronti di Mumbai.

Nel frattempo si sviluppa anche la storia, quella delle tre donne, che vivono nei condomini della periferia, meravigliosi alveari brulicanti di vita. Una si è sposata giovane attraverso un matrimonio combinato, di cui sembra andare fiera, ma da lungo tempo non vede il marito che si è trasferito in Germania per lavoro. L'altra donna, vedova, ha ricevuto un invito a lasciare l'appartamento, in quanto non risulta proprietaria. In realtà lo è, ma non possiede più l'atto che lo dimostra, lo ha perso. Una scusa dell'impresa costruttrice per demolire. La terza donna, l'infermiera più giovane, ha una storia clandestina con un ragazzo musulmano. Ecco qual è il fatto misteriosa attorno a cui si svolge la vicenda. C'è la donna adulta che crede nel matrimonio combinato e la giovane che trasgredisce la regola, ma che tiene nascosto il segreto. L'altra qualcosa capisce, e dentro di sé inizia a giudicarla. Inevitabilmente dentro di lei si crea un conflitto, si rivede nella collega, proiettata nella se stessa più giovane, si ritrova davanti alle stesse scelte. Lei disprezza le relazioni interrazziali. Non approva che si vada contro le decisioni dei genitori.


ALLERTA SPOILER


La ragazza decide di rischiare e si incontra di nascosto con l'amato. Si danno appuntamenti di notte, dopo i turni di lavoro, nei mercati. Approfittano di un parcheggio sotterraneo lurido per baciarsi, ma la loro innocenza fa trasforma un luogo così squallido in pura poesia, anche per merito delle belle inquadrature. Con le parole di Guccini: che nostalgia per quelli contro un muro o dentro a un cine o li' dove si puo'

Dentro queste scene si nasconde l'essenza della filosofia della Kapadiya, l'amore profondo che prova nei confronti di questa città che guarda avanti, verso il terzo millennio, che rappresenta il futuro.

Le tre donne sono costrette a tornare al villaggio, là dove regna l'antico, dove regna indisturbata la tradizione, quella rigida mentalità di caste e intransigenza morale. Questo pensa la protagonista, anche se persino nei suoi pensieri non riesce ad ammetterlo. Per lei si tratta dell'odiato villaggio, quello dove è stato decretato che si doveva sposare con un uomo che l'ha abbandonata.

Sono costrette a tornare nell'odiato villaggio per accompagnare l'amica sfrattata, che ha deciso di arrendersi, di rinunciare affranta alla bella e libera vita di città.

Il ragazzo segue di nascosto la comitiva, in modo da potersi incontrare con l'amica per amoreggiare in mezzo alla giungla, o addirittura in una grotta di fronte ai volti scolpiti degli antenati, quasi con un gesto di sfida irriverente. O forse quegli antenati sono più saggi dei loro stessi genitori, e li guardano con affetto.

La donna li vede, ora ha le prove del legame vergognoso. Ma non ha tempo di pensare e riflettere sul da farsi. Accade che c'è un annegato che torna trasportato dal fiume. La gente del villaggio si assiepa intorno al moribondo impedendogli di respirare. Lei, infermiera, si fa avanti e pratica la respirazione bocca a bocca, salvando la vita all'uomo. Tutti vedono che lo bacia e nella loro ignoranza pensano che sia la moglie. Tanto che la vecchia dottoressa, in ospedale, la invita a andare a trovare suo marito addormentato sul letto. Lei dice che non è così, si oppone. Poi però si ferma a pensare davanti alla finestra, mentre lui dorme. Il titolo del film è All we imagine as light, tutto ciò che immaginiamo come luce. La voce della donna, di nuovo sussurrata, indica che sta pensando. Fantastica che l'uomo sconosciuto sul letto possa essere davvero suo marito, invecchiato e irriconoscibile, tornato per dirle che là nella terra lontana, in mezzo al buio delle notti interminabili di lavoro stremante, il pensiero di lei era la luce. Dunque lei spera che lui ciò che immagina come luce sia lei.

Poi si sveglia da quel sogno a occhi aperti e finalmente guarda in faccia la realtà. L'uomo disteso non è suo marito, tornato a abbracciarla, è solo uno sconosciuto qualsiasi che ha salvato. Suo marito non è più tornato e non tornerà mai. l'ha condannata a una vita in solitudine, in un matrimonio trappola che le ha rovinato la vita.

Così, finalmente, lei vede ciò che è la vera luce.

Esce di lì e corre dalla giovane amica per dirle che sa tutto, per chiederle di cenare con quel ragazzo, che è musulmano, ma non ce ne importa nulla, brindiamo in quel locale pieno di luci abbaglianti e di colori che tanto ricorda l'amata Mumbai, piena di contraddizioni, ma anche proiettata nel futuro.

LT


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