Seidl, Safari, 2016

 

Seidl, Safari, 2016
Un film sulla banalità del male 
 

 

Seidl è il pluripremiato autore di una serie di documentari critici che sembrano voler scandagliare i mali della società, con uno sguardo acuto degno di Herzog. In Safari, forse il mio preferito, riprende numerosi cacciatori tedeschi in trasferta in Africa, che esprimono il loro unico punto di vista sulla loro attività, senza alcun contraddittorio.
Caccia a pagamento. La proiezione inizia con una coppia di partecipanti che leggono le tariffe relative alle diverse specie. Poi escono nella savana e ci danno una dimostrazione di caccia grossa. Si tengono al riparo dal pericolo, a debita distanza, seguiti come ombre dalle guide locali. Installano il treppiede e sparano a lunga gittata, stendendo inesorabilmente bufali, zebre, giraffe.
Seidl intervista gli orgogliosi protagonisti nei locali dei resort, tappezzati di teste impagliate di animali selvatici. Inquadrature frontali, oggettive. Nessuna voce narrante. Non si sentono nemmeno le domande. Solo le loro risposte. Parlano di tutto: dei modelli dei fucili, del sapore delle carni, del beneficio che la caccia apporta all'ambiente.
Ma qui Seidl sembra tradire il suo reale intento. Il montaggio conta parecchio, come sempre. Seleziona i frammenti che, una volta uniti, evidenziano certi aspetti. I cacciatori parlano anche delle persone di colore, le guide, affermando che non si tratta di esseri umani differenti da loro. Si passa dall'argomento principale, la caccia grossa, alla manifestazione della superiorità da parte di un elite auto-eletta. Non è solo superiorità dell'uomo sull'animale, la dura legge del più forte. Qualcosa sembra collegare la lingua parlata, il tedesco, con l'imbarazzante passato di un popolo.
"il film è diventato anche un film sul concetto di uccidere: uccidere per il piacere di farlo senza essere mai davvero in pericolo, uccidere come una sorta di liberazione emotiva. Conoscevo cacciatori che uccidevano ma non coppie e famiglie che si baciano e congratulano tra loro dopo l’uccisione. L’atto di uccidere sembra per loro un atto libidico."
Seidl parla di film sull'uccidere. Certo, è evidente, i partecipanti al Safari dicono esattamente quello. Parlano a fiumi: vere e proprio digressioni sulla legittimità dell'uccidere.
Ma, ha ragione Seidl, ciò che più colpisce è la libidine che pervade il loro sguardo quando abbattono (termine a cui tengono tantissimo) l'animale.
Nella sequenza tremenda viene abbattuta una giraffa. La donna corre dall'uomo che ha sparato e non trattiene le lacrime, esplodendo di gioia, perché ha capito che sta vivendo il momento più grande e emozionante della propria vita. La donna corre ad accarezzare il corpo esanime, ne saggia con le dita il foro di entrata e di uscita, eccitatissima.
Non s'accorge di quello che alle spalle tutti gli spettatori fissano. Il maschio della giraffa che, incauto del pericolo, non accenna ad andarsene, continuando a fissare l'amata, perduta per sempre.
Una delle immagini più agghiaccianti che io abbia mai visto. Anche commovente, toccante. Non si trattengono le lacrime. Ciò che gela il sangue è quest'atteggiamento della donna. Ma lei non si rende minimamente conto di ciò che accade.
Ecco la banalità del male. Non intendo giudicare se l'uccisione dell'animale sia legittima. Intendo affermare che l'atto di uccidere trascina emotivamente così tanto la donna che lei dimentica di porsi domande sulla legittimità. Si dimentica. Non vede nient'altro. L'azione la rapisce e lei si estranea dal resto, completamente incapace di accettare altro che non sia parte di quel suo mondo personale che si è costruita.
La donna è completamente ignara di ciò che le accade intorno.
Questa è la banalità.
Ho pagato, ho sparato, ho ucciso, è il giorno più bello.
Punto.
Non che il male sia sempre accompagnato da questa indifferenza, sia chiaro. Esistono persone che commettono il male per il puro gusto di farlo. 
 
 
 


 
 
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