Maura Delpero, Vermiglio, 2024
Il mio giudizio non fa testo. Non sono attendibile. Non sono imparziale. Ho passato parte della mia infanzia in questa valle, quindi niente, sono troppo di parte. Non mi può che far piacere che abbia vinto il Leone d'Argento. Non mi può che far piacere che sia stato scelto per rappresentare l'Italia all'Oscar. Ma ciò che conta è che mi è piaciuto il film.
Mi basta l'inizio. Un dialogo con un'inquadratura aperta che lascia intravedere il massiccio dell'Adamello innevato. Poi foreste di conifere imbiancate, perse in un'atmosfera magica, fiabesca. Toccano il cuore. Il vecchio maso in pietra, i vecchi mobili verniciati con la cera: mi sembra di sentirne il profumo.
Siamo negli anni della guerra. Due soldati si rifugiano nel villaggio, accolti così così, a seconda delle persone. Di sicuro a una dei quattordici figli del maestro uno dei due soldati piace. La storia è tutta lì. Un amore per un forestiero, non da tutti benvoluto. Una trama che ricorda vagamente Il vento fa il suo giro, il capolavoro di Giorgio Diritti. Impossibile non pensare al primo Ermanno Olmi, quello dei bellissimi documentari delle dighe alpine. Infine noto anche io qualche somiglianza, già rilevata da molti, con Padre padrone dei Taviani, più per l'ambientazione.
La Depero sa maneggiare con maestria la semplicità, la dote dei più grandi. Padroneggia il rigore bressoniano: pochi tocchi, musica dosata, inquadrature prolungate. La luce degli interni è soffusa, come si addice al lume di candela di una volta. I volti cantano. La protagonista è incredibilmente espressiva. La vita di montagna ha i suoi pregi e i suoi difetti. La comunità è chiusa e ottusa. Ma il sapore arcaico affascina. Intenerisce tutti la scena dei bimbi che fanno ginnastica in classe. Affascinano le grandi tavolate, il chiacchierio del bar.
Ma, su tutte, la scena che vale il film è il passaggio della processione tra le due file di persone, con quella luce serale, degna della più bella foto di Luigi Ghirri, e direi che ho detto tutto.
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