Semplicemente il Dio dell'architettura 

senza eguali

Peter Zumthor 











Alonso Ruizpalacios, 

ARAGOSTE A MANHATTAN, 2023

(LA COCINA)



Alonso Ruizpalacios, già noto per il talentuoso Gueros, di grande successo nei circuiti di cinema indipendente, e per Museo, Folle rapina a città del Messico, torna con un'opera ancora più autoriale delle precedenti. Sceglie la strada del bianco e nero e del virtuosismo tecnico, impregnandola di emozioni esplosive e di recitazioni tiratissime, estenuanti per attori e spettatori. Se fosse un quadro sarebbe espressionismo, magari un urlo di Munch.  
La cucina che dà il titolo al film è quella di un ristorante di Manhattan. Una cucina infernale, nel senso buono e cattivo del termine. Un crogiuolo di razze, colori della pelle, lingue. Il meltin'pot allo stato puro. 
Il film inizia con l'arrivo di una ragazzina messicana, che si candida per un colloquio. L'avrebbe mandata a chiamare, così dice, un cugino che lavora lì come chef. La ragazza percorre un lunghissimo e labirintico corridoio che pare interminabile, immerso nel buio, stretto, soffocante. Capiamo subito che il tema è la claustrofobia, trasmessa così intensamente da essere avvertita nelle viscere dello spettatore. Senso di asfissia. Il colloquio è un interrogatorio della Gestapo, ma alla fine viene accettata. Si reca nella cucina, così finalmente la vediamo: i cuochi sembrano stipati dietro un bancone come se fossero tanti soprammobili, spalla contro spalla, gomito a gomito. La sensazione è quella di una catena di montaggio. Ma l'essere così a stretto contatto rende in qualche modo solidali i lavoratori. Spesso si lanciano tra di loro in danze sfrenate di parolacce e insulti razzisti, ognuno nella sua lingua, e pare che si divertano tantissimo, tutti assieme maschi e femmine, tutti a insultarsi a vicenda e senza sosta. Un'indigestione di parole, urla, risate, volti tesissimi. Ogni cosa assume il sapore di lercio, di promiscuo. Ma regna comunque una sorta di fratellanza implicita, che tocca il cuore. La più evidente sensazione è che si tratti, lì dentro, nell'inferno, di una grande famiglia. Anche se la polveriera è sempre a un passo dall'esplodere. 
Tante le sequenze memorabili: quando la cucina si inonda e tutti continuano a lavorare di corsa come se niente fosse. Poi nel vicolo, quando in pausa si confidano, seduti per terra, con le scale antincendio che paiono anch'esse scenografie di gironi infernali. E poi c'è il finale, quel finale, in cui Pedro esplode. Quella scena lì, quel piano sequenza, fatevi un favore di non perderlo, perché è già Storia.
 








Sisu è un termine finlandese che si può tradurre in italiano con espressioni quali: forza di volontà, determinazione, perseveranza e razionalità. Manca una traduzione più precisa. Sisu è una parola chiave per capire la cultura finlandese. La parola deriva da sisus, che significa intimo, interiore. Significa coraggio estremo di fronte a ostacoli insormontabili. È più che un semplice hartia pannki, coraggio fisico. Ci vuole forza interiore, e ottimismo e capacità di resistenza e un bel po' di quell'ostinatezza tipica del mulo, quel tipo di testardaggine che permette a un uomo a cui è stata diagnosticata una malattia incurabile di sopravvivere ai suoi medici. Forse non vinciamo sempre, dice la sisu, ma sicuramente non perderemo mai.




 TOP GUN

Tony Scott, 1986




Oltre la cortina di ferro, questi film che apparivano dozzinali agli occhi di noi occidentali, sortirono l'effetto opposto: dato che, per ovvi motivi, erano severamente proibiti dalla censura, presto iniziarono a circolare sul mercato nero. Intere famiglie si ritrovavano nell'appartamento di chi aveva il videoregistratore per vedere di nascosto ciò che era proibito: il mondo occidentale. Coca- cola, motociclette, auto di proprietà, vestiti, fast-food. Nell'Europa dell'Est il cinema americano illegale è diventato un fenomeno di massa, che secondo la tesi, documentata, di Ilinca Călugăreanu, è all'origine della rivolta che ha portato alla dissoluzione della cortina di ferro.
Tra questi film americani c'era Top Gun. 


Io lo ammetto, ho sempre pensato che Top Gun fosse solo un film pieno di esibizioni cariche di testosterone e di bulli da due soldi. Discorso a parte la colonna sonora, bellissima: avevo anche la cassetta. Poi, da grande, ho scoperto che per molti dei miei coetanei aveva assunto un significato diverso. Nei paesi dell'Est circolava solo sul mercato nero, e quindi era diventato il simbolo della libertà, incarnato da quelle incredibili acrobazie di caccia che tuonavano nel cielo. 
La libertà. 
Maverick, è uno sbruffone. Tom Cruise lo rende alla perfezione. Non sta alle regole, mai, nemmeno in volo, creando lo scompiglio. Il suo avversario, interpretato da Val Kilmer, è un duro, ma disciplinato. I due gareggiano ovunque, anche sulla sabbia del beach volley, esibendo muscoli a più non posso. Anni Ottanta... 
C'è da dire che gli istruttori sono geniali. Uno più bravo dell'altro. I loro discorsi sono da cineteca. Io adoro il primo, quello delle selezioni, per le sue battutacce a effetto. Poi c'è Michael Ironside, grande attore, vedi Scanners.
Poi c'è 'istruttrice sexy. All'inizio Maverick ci prova sfacciatamente con lei in un bar, completamente ignaro del ruolo che assumerà il giorno dopo in Accademia. Una bella trovata, immaginatevi la faccia di Maverick quando lei sale in cattedra. Ma in ogni caso la brava prof. se lo mangia con gli occhi. Così inizia l'interminabile flirtare, un tira e molla che ci tiene impegnati per metà film. Gli sguardi che scambiano sono più roventi di mille scene 
dai più noti film scandalosimesse assieme .  
Poi ci sono le missioni, appunto. E le canzoni. Parte Take my breath away, e voi alzate il volume, raccomando. 

Yodas Crew 

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 TROLL HUNTERAndré Øvredal, 2010




Tutto vero: nel 2009 sono stati ritrovati dei filmati ripresi da alcuni giovani giornalisti emergenti poi misteriosamente scomparsi. Il governo norvegese ha messo a tacere il contenuto dei nastri, facendo sparire tutti gli autori.
Cosa mostravano i filmati? L'esistenza dei troll. I troll, che si dividono in sei specie sconosciute, abitano le zone montuose disabitate, per lo più al centro della Norvegia. Non immaginatevi esseri simpatici. Sono molto aggressivi, soprattutto quando contraggono la rabbia. Sono molto simili ai troll come vengono tramandati dal folklore scandinavo, col caratteristico grande naso. Una specie però ha tre teste, di cui in realtà le due laterali sono finte, servono solo a spaventare gli animali. Un'altra specie si caratterizza per le dimensioni spropositate: 50 o cento metri, o giù di lì. 
Come li hanno scoperti i nostri eroici giornalisti? Seguendo un tale, sospettato dai media di essere un bracconiere, che in realtà è stato incaricato direttamente dal governo di sterminare i troll che escono dalle zone disabitate e si avvicinano pericolosamente ai centri urbani. Ciò accade sempre più spesso, per via dei cambiamenti climatici e del buco dell'ozono, visto che i troll soffrono la luce. 
Anche i se i troll non vi interessano, e non vi interessa sapere a che pericoli andiamo incontro, sappiate che ignorando questo documentario rischiate di perdervi alcuni dei panorami più belli che abbiate mai visto: fiordi immersi nella nebbia, coperti di neve, circondate da meravigliose foreste di conifere. E poi roulotte, campeggi, cabine in legno. Tanto trekking ed esplorazioni notturne di boschi. 
Vedendo questo documentario vi verrà voglia di passare un week-end in camper presso i boschi, magari in Trentino, o in Svizzera, o anche in Norvegia. 
Tra parentesi: le scene con troll fanno veramente paura, pur essendo esenti da splatter, e le immagini sono semplicemente tra le più belle mai viste su un grande schermo. Il finale è qualcosa di incredibile: appartiene a un altro mondo. 
Troll hunter non è solo un film, è il capolavoro del mockumentary

Yodas Crew


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disponibile (a pagamento) su: Youtube, Google Play, Apple, Rakuten




 LA PAURA NEL CINEMA

DAVID LYNCH

(STRADE PERDUTE)




Per sapere cos'è la paura nel cinema dovete guardarvi un film di David Lynch, non c'è nient'altro da fare. Strade perdute, per esempio. Altro che Jump scare o sbalzi improvvisi di volume in sala pronti a spaccare i timpani di chiunque. E poi dicevano che ci rovinavamo l'udito in discoteca con la musica tecno. Beh, David Lynch non ha bisogno di questi trucchetti. Instilla la paura in qualsiasi spettatore con poco, con zero, o quasi zero, meno di niente. Al maestro basta avere un corridoio. Nelle case moderne purtroppo non mettono più i corridoi. Tranne che nelle villa scelta per strade perdute. I corridoi agli speculatori edilizi non servono a niente: solo spazio sprecato. Ti mettono un disimpegno qui, uno lì, e siamo a posto. Invece una volta proliferavano i corridoi. Nei corridoi proliferavano i fantasmi. I mostri. Le nostre più grandi paure. Di solito negli armadi, ma il budget di Strade perdute non prevedeva armadi extra. Nella villa minimalista superfiga niente arredi. Meglio così, dice Lynch, il vuoto fa più paura ancora. Insomma, per farla breve. Arriva Linch e si trova davanti un bel corridoio. Il che lo costringe a porsi una domanda: lo illumino oppure no? E così, non avendo a disposizione un faro per illuminare (che dite, ce l'aveva?) sceglie di spedire il protagonista nel corridoio buio. Armarlo con una torcia elettrica manco a parlarne. Gli dice di entrare piano piano nel corridoio buio mentre lui lo riprende di spalle. Già sto tizio di suo vaga in giro per casa continuamente in silenzio con l'ossessione, in parte giustificata, di trovarsi qualche intruso. Si aggira, già di suo, tra tendaggi di velluto rosso e gli immensi divani immersi nella penombra. La storia si ripete e l'ansia, in sala cresce, sempre di più. E così vi garantisco che, quando il tizio imbocca il suddetto corridoio buio, lo spettatore si caga in mano. 
Del resto del film non si capisce un cazzo, ma vi garantisco che è pura arte, così noi proseguiamo nella visione, convincendoci pure di avere una spiegazione per un film che spiegazione non ha. 
Signori, è David Lynch. 


Yodas Crew 
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Glazer, La negazione della banalità del male
La zona d'interesse, Meridiano di sangue, Safari





Hannah Arendt scrisse riguardo all'Olocausto che nessuno era responsabile, o meglio, nessuno vi si sentiva; facevano solo il proprio lavoro. Eichmann stesso si sentì vittima di un'ingiustizia, ed era profondamente convinto di star pagando per le colpe degli altri: dopotutto, lui era solo un burocrate che faceva il proprio lavoro, ed incidentalmente, questo coincideva con un crimine.
Questa è la banalità del male. Ognuno scarica la responsabilità sull'altro, vivendo il proprio atto malvagio come un fatto qualunque, banale, parte di una routine quotidiana.
Il film La zona d'interesse ribalta completamente questa prospettiva. Dietro l'apparenza di normalità, ostentata attraverso tutte le inquadrature (posizione della mdp. scenografie, costumi), si nasconde una lampante verità. Tutti i nodi vengono al pettine.
Sembra che i componenti della famiglia Hoess non si rendano nemmeno conto che accanto loro orto idilliaco la ciminiera mandi sbuffi di morte.
Sembra, ma non è così.
Ad ogni sbuffo di morte loro godono, perché ogni sbuffo è la dimostrazione, così credono, della loro superiorità. A scanso di equivoci la moglie vuota il sacco, minacciando la
serva:


Potrei dire a mio marito

di spargere le tue ceneri nei campi


Parole che pesano come macigni, scagliate su ogni spettatore in sala.
Del resto che dire del Comandante Hoess che al tavolo da pranzo studia con gli esperti le planimetrie dei forni crematori per cercare di migliorarne la "resa" ?
Le vittime come numeri di un'equazione.
Li chiamano carico.

Ricaricare la camera di combustione.

Non c'è ombra di dubbio: non si possono pronunciare parole come queste con indifferenza. L'indifferenza è bandita. Parole come queste si possono pronunciare solo come atto di consapevole efferatezza. Nello stesso momento in cui la parola carico ti esce di bocca, tu stai declamando la tua superiorità rispetto a un essere inferiore, in realtà tuo simile, ma che per te è solo carico.
Non si può equivocare su tale intenzionalità.


Può esistere dunque la banalità del male?
Il caso ha voluto che mi capitasse in mano un libro di McCarthy.
Meridiano di sangue. L'autore descrive senza mezzi termini un universo a noi lontano, appartenente al Far West del 1850. Si tratta di un inferno. I cavalieri, una spedizione di cacciatori di taglie, attraversano un paesaggio disseminato di orrore: teste mozzate appese alle facciate delle chiese, cadaveri divorati dagli avvoltoi, ovunque. Ogni giorno la scena si ripete. E loro nulla, come niente fosse. tirano dritto. Quando arriva il loro turno, fanno di peggio. Commettono atrocità in rapida sequenza, freddamente. Capiamo che sentono di non aver scelta. E' la loro vita: come animali che debbono uccidere per non essere braccati.
In questo contesto davvero i mostri sembrano non essere per nulla consapevoli del male che stanno compiendo. Anzi non si tratta nemmeno di male. Non c'è scelta. Nessuna alternativa.
Potrebbero starsene in casa barricati come i poveri messicani nelle baracche. Invece hanno scelto di stare fuori e cacciare. Ma, dalla loro prospettiva, non hanno scelta. Quella è l'unica modalità di vita che conoscono.
Quindi quel Far West è il regno della banalità del male.

Ma era il West senza legge del 1850.
Si può dire la stessa cosa del 1945?
Di certo non si può dirlo della famiglia Hoess nel film. Caratteristica inequivocabile del nazista è esercitare la propria superiorità consapevolmente. Non una superiorità dovuta a meriti, ma una superiorità dovuta alla razza. Di matrice puramente
elettiva.

Un altro film che stimola la riflessione sulla banalità del male è lo splendido Safari di Siedl.
La telecamera imparziale e oggettiva riprende alcuni di gruppi di cacciatori durante un safari in Africa. Non vi è presente alcuna forma di giudizio morale. Non si tratta di mettere in discussione la caccia. L'unico punto di vista è quello dei cacciatori, ripresi durante l'attività e poi intervistati.
Quello che fa riflettere è come essi siano totalmente immersi all'interno del loro universo, la confraternita dei safaristi, come se tutto il resto il mondo fosse lontano anni luce, dimenticato. In quel momento sono talmente assatanati, rapiti da quello che stanno facendo, che non sembrano più nemmeno accorgersi della telecamera che li riprende, per mostrare al mondo quello che stanno dicendo. Sembra che in quel momento si siano costruiti una corazza addosso, capace di preservarli dal giudizio dell'altro.
Il fatto che sia giusto o sbagliato cacciare non ha niente a che vedere con il film, che si propone di scandagliare l'
assolutismo, ferreo, della convinzione
dei protagonisti.
Non c'è altro modo di esistere se non quello.
Forse la banalità (del male), se esiste, quando esiste, è simile all'incapacità di percepire, di prendere in considerazione, alt
ri punti di vista al di fuori del proprio ?

LT


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